Le mani dei campioni svelano l’anima dello sport

 

La mano di Leo Messi e quella di Kylian Mbappè. Uno ha appena vinto il mondiale che lo porta nell’olimpo del calcio, l’altro lo ha appena perso ma sarà un dettaglio nella storia che è destinato a scrivere. Mani a centrocampo che si cercano, si trovano e si salutano. Onore a vincitori e vinti, campioni, rivali, non amici. Probabilmente solo colleghi di club, presente, e forse già un po’ passato, e futuro di un calcio da «mille e una notte» destinato sempre più a fare i conti con i denari degli emiri che hanno messo le mani sullo sport. Che è sempre più un affare colossale, ragione economica e politica, ma prova a resistere aggrappandosi ai gesti dei suoi atleti, alla passione, alla fatica, alla gioia e ai pianti. Le mani a volte sono capaci di raccontare tutto ciò in maniera formidabile. Basta guardarle, come si muovono, cosa dicono. E allora dalle mani di Messi e Mbappè è un attimo tornare indietro nel tempo per ricordare la «mano de Dios» di Diego Maradona che beffò gli inglesi, colpo divino, diabolico o semplicemente scorretto. Ed è sempre un attimo tornare indietro di una ventina di anni per ritrovare le mani di Paolo di Canio che in Premier, mentre si gioca Everton-West Ham, sta per segnare un gol decisivo, ma si accorge che il portiere avversario è a terra per un infortunio e con le mani ferma il gioco. Mani e pallone alzati verso cielo in un gesto di fair play che fa venir giù «Goodison Park» e fa il giro del mondo. Mani sul pallone sono anche quelle di Dino Zoff al Sarrià di Barcellona, nella sfida mundial dell’82 contro il Brasile: all’ultimo secondo ferma una palla proprio sulla riga di porta e poi con il dito indica all’arbitro, al pubblico, al cielo che «No, non è entrata…». Con quella mano scrive un bel pezzo di storia nazional popolare, esorcizza la paura, racconta l’onestà genuina e antica della sue genti e del «Vecio» che lo guidava dalla panchina. Storia andata e storia recentissima che pochi giorni fa passa dalle mani di Sofia Goggia che a Saint Moritz vince sua sedicesima discesa libera. Ha una mano fratturata, gliel’hanno operata il giorno prima a Milano e poi gliel’hanno legata alla racchetta con del nastro adesivo. Non si potrebbe sciare così ma per lei non vale. Serve talento per dominare in coppa del mondo ma la mano di Sofia racconta che non basta perchè senza tenacia è un attimo buttarlo via. Storie di mani e di rispetto. E tocca al ciclismo raccontarle. A Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar nella diciottesima tappa dell’ultimo Tour lungo la discesa del Col de Spandelles quando, dopo una caduta del suo rivale, il danese in maglia gialla si ferma ad aspettarlo, gli stringe la mano e poi riprende a pedalare. Vale la pena di esagerare con la retorica per raccontare un «attimo fuggente» che mette insieme valori antichi come la lealtà, l’amicizia e la stima che lo sport eleva. Verranno i bastian contrari a dire che in uno sport dove ormai impera il business è tutta una pantomima, parte di uno show, a spiegare che il ciclismo non può dare lezioni e tireranno in ballo la solita storia di chi bara col doping. Pazienza, anzi: chissenefrega. Ma ciò che è successo e che quelle mani hanno raccontato resta.  Così come restano i guanti neri che nel 1968 avvolgono le mani di Tommie Smith e John Carlos, allo stadio di Città del Messico durante la premiazione dei 200 metri olimpici in cui i due velocisti americani sono arrivati primo e terzo. Quando risuonano le note di The Star-Spangled Banner nello stadio i due abbassano la testa e sollevano i loro pugni al cielo in quella che è diventata una delle immagini più dirompenti del Novecento, simbolo di un decennio di proteste per i diritti civili dei neri. E da simbolo a simbolo la narrazione finisce tra le mani grandi di Muhammad Ali, gigante non solo della boxe. È l’ultimo tedoforo ai giochi di Atlanta nel 1996. Regge la fiaccola con la mano destra, mentre sulla sinistra sono evidenti i sintomi del morbo di Parkinson che lo affligge. Trema, è debole, porta i segni di una malattia cruenta, infida. Qui le mani e le fiaccola che accendono il braciere olimpico raccontano la rivincita, la voglia di non arrendersi e la dignità di fronte alla sofferenza. Raccontano la vita. Sembra impossibile: non lo è.